Non sarai tu, povero untorello… (ovvero: riflessioni all'inizio del nuovo anno scolastico)
“- Va', va', povero untorello, - rispose colui: - non sarai tu quello
che spianti Milano”: questo dice a Renzo
Tramaglino il monatto che poco prima l’aveva salvato da un linciaggio,
facendolo salire sul carro con il quale stava trasportando i morti di peste.
In questo capitolo, Renzo mi è sempre sembrato una bella metafora del classico alunno “difficile”. Nel capitolo XXXIV, infatti, il buon Renzo, che spesso dimostra una particolare tendenza a mettersi nei guai, si ritrova per le strade di Milano devastata dalla peste e, incrociando un passante, fa per salutarlo togliendosi il cappello.
Lungi dall’apprezzare il gesto di gentilezza, l’altro lo interpreta come una modalità per diffondere nell’aria una malefica polvere portatrice del male ed etichetta Renzo come untore.
In questo capitolo, Renzo mi è sempre sembrato una bella metafora del classico alunno “difficile”. Nel capitolo XXXIV, infatti, il buon Renzo, che spesso dimostra una particolare tendenza a mettersi nei guai, si ritrova per le strade di Milano devastata dalla peste e, incrociando un passante, fa per salutarlo togliendosi il cappello.
Lungi dall’apprezzare il gesto di gentilezza, l’altro lo interpreta come una modalità per diffondere nell’aria una malefica polvere portatrice del male ed etichetta Renzo come untore.
Che succede allora al nostro Renzo?
“Il tempo era chiuso, l’aria
pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola o da un nebbione uguale,
inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la pioggia; la campagna
d’intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura scolorita, e neppure una
gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per di più, quella solitudine,
quel silenzio, così vicino a una gran città, aggiungevano una nuova
costernazione all’inquietudine di Renzo, e rendevan più tetri tutti i suoi
pensieri.”
E in effetti, l’impressione – a volte anche sbagliata – che per i
compagni non sia così difficile, che loro siano già “una gran città”, rende
l’inquietudine ancora più pesante e i pensieri ancora più tetri. Quando i
bambini mettono in campo tra loro modalità relazionali particolarmente
competitive, possono dare l’impressione agli altri di essere dei “vincenti”,
anche se in realtà stanno essi stessi cercando la strada. Ma andiamo avanti:
“La strada che Renzo aveva presa,
andava allora, come adesso, diritta fino al canale detto il Naviglio: i lati
erano siepi o muri d’orti, chiese e conventi, e poche case. In cima a questa
strada, e nel mezzo di quella che costeggia il canale, c’era una colonna, con
una croce detta la croce di sant’Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi,
non vedeva altro che quella croce. Arrivato al crocicchio che divide la strada
circa alla metà, e guardando dalle due parti, vide a dritta, in quella strada
che si chiama lo stradone di santa Teresa, un cittadino che veniva appunto
verso di lui. «Un cristiano, finalmente!» disse tra sé; e si voltò subito da
quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui.”
Quando appare un essere umano, un compagno che non prende in giro, che
non si vanta, che non si scosta, anche il nostro alunno Renzo pensa dentro di
sé “un cristiano, finalmente!” e mette in campo le sue abilità per farselo
amico. Ma è proprio qui che cominciano i guai:
“Questo pure aveva visto il
forestiero che s’avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo
sospettoso; e tanto più, quando s’accorse che, in vece d’andarsene per i fatti
suoi, gli veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello,
da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra
mano nel cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo,
stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso
bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: - via!
via! via!
- Oh oh! - gridò il giovine anche lui; rimise il
cappello in testa, e, avendo tutt’altra voglia, come diceva poi, quando
raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a
quello stravagante, e continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui
si trovava avviato.
L’altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto
fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che
gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso
d’infame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino della polvere
(non era ben certo qual de’ due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per
fargli il tiro, se lui non l’avesse saputo tener lontano. - Se mi s’accostava
un passo di più, - soggiunse, - l’infilavo addirittura, prima che avesse tempo
d’accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu ch’eravamo in un luogo così
solitario, ché se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a
acchiapparlo.”
Che cosa è successo? Semplicemente che il gesto di Renzo è stato
frainteso, in assoluta buona fede, dal passante, che si convince di aver
incontrato un untore. Non c’è cattiveria o malizia, ma solo paura, nel
passante; non c’è, allo stesso modo, cattiveria o malizia in Renzo, ma solo,
forse, inadeguatezza alla situazione in cui si trova.
Poco tempo dopo, Renzo batte alla porta della casa di Don Ferrante alla
ricerca di Lucia, quando una donna lo vede e, ancora una volta fraintendendo il
suo gesto, grida “Dagli, dagli all’untore!”. A questo punto, Renzo rischia il
linciaggio, se non fosse per un carro pieno di cadaveri che gli passa accanto e
sul quale i monatti lo lasciano salire, salvandogli, di fatto, la vita.
A parte la bella costruzione con cui Manzoni ci mostra come gli onesti
cittadini, presi dalla paura e dai pregiudizi, possano diventare dei potenziali
carnefici nei confronti di un innocente malcapitato, che viene invece salvato
da chi non ci si aspetterebbe, la frase con cui il monatto saluta Renzo mi fa
venire in mente quelle classi in cui i problemi di gestione vengono attribuiti
allo scapestrato di turno.
A seconda delle diverse sensibilità di genitori ed insegnanti, il
malcapitato Tramaglino può essere a volte l’alunno con disabilità, altre volte
l’alunno straniero, altre ancora quello che – pur in assenza di etichette
particolari – non si adegua o non riesce ad adeguarsi alle regole.
Allora, ecco che prima o poi partono i “dagli all’untore”, sotto varie
forme, che potremmo così catalogare:
1. pietistico- compassionevole: “Noi abbiamo provato anche ad invitarlo
a casa, a coinvolgere la famiglia, ma purtroppo non ce la fanno proprio a
gestirlo, poveretti”;
2. autocommiseratoria- vittimistica: “nostro figlio non ce la fa più,
torna sempre a casa con un gran mal di testa, non sopporta più le cattiverie di
questo compagno e le urla degli insegnanti”;
3. recriminatoria – accusatoria: “Ci aspettavamo un atteggiamento più
autorevole da parte degli insegnanti. La scuola non sta facendo niente per
risolvere la situazione”;
4. didattico- autocelebrativa: “Dovete chiamare noi, ci pensiamo noi a
parlare con i genitori di costui. Noi sappiamo come si fa…”
Comunque venga presentato, il discorso sottende e suggerisce, spesso in
modo tutt’altro che velato, che alla folla, per definizione buona, deve essere
sacrificata la testa dell’untore di turno.
Bisognerebbe però ricordare il monito del monatto, che molto
razionalmente considera la situazione e si rende conto che, da solo, un untore
non potrà distruggere tutta la città.
Bisognerebbe poi tenere presente che, in realtà, il povero Renzo non è
affatto un untore, ma è rimasto vittima del fraintendimento di un suo gesto “da
montanaro”.
Bisognerebbe infine aver chiaro che il tempo – che qualcuno ha definito
“galantuomo” – che ci separa dall’epoca della peste, ci ha insegnato che gli
untori non sono proprio mai esistiti e che la pestilenza veniva invece diffusa
da incolpevoli ed inconsapevoli topi.
Fuori di metafora – per la quale Manzoni e i suoi venticinque lettori
avranno la benevolenza di perdonarmi – possiamo dire che le situazioni di
criticità in una classe non si risolvono se non ci si mette nell’ottica della
gestione del gruppo.
Un gruppo non è mai il risultato della somma dei singoli e questo
concetto fondamentale ce lo ha insegnato la psicologia e purtroppo anche la
storia più o meno recente: è assodato che nel gruppo i comportamenti sono
sempre diversi da quelli dei singoli componenti e condizionati dagli intrecci
relazionali, che non sono mai unidirezionali.
Questo complica molto le cose: sarebbe facile e consolante, in fondo,
trovare un capro espiatorio per ogni situazione problematica, perché sarebbe
sufficiente agire su di esso per risolvere il problema emergente. Nelle
relazioni umane, purtroppo, non è mai così semplice e spesso all’interno di un
gruppo chi manifesta reazioni inadeguate al contesto non è il Colpevole, ma
semplicemente il “Sintomo” di una situazione che non funziona. La disfunzione
di un gruppo ha sempre il suo fulcro nelle relazioni.
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